11.2.10

Non riuscivo a dormire.
Mi ero stufato di girarmi nel letto e decisi di uscire a fumare sul balcone.
La notte era fredda e per strada sembrava non esserci nessuno.
Sentì un rumore come di un qualcosa lanciato contro il muro che si frantuma.
Sentì delle urla. Vidi un uomo correre a perdifiato inseguito da altri 3.
Non era abbastanza veloce. Lo presero pochi passi dopo che aveva superato il mio balcone.
L’uomo era a terra; i tre lo picchiavano ininterrottamente; uno alla volta davano sfoggio delle proprie capacità. La ferrea e democratica alternanza li fece assomigliare ai miei occhi a tre danzatori che , consci dell’importanza di rispettare ogni passo con religiosa precisione, intersecavano con impareggiabile maestria i loro movimenti e così ogni giravolta dell’uno era seguita da uno splendido balzo di un altro per poi lasciare spazio a una presa del terzo.
I tre danzatori giravano, volteggiavano, piroettavano intorno all’altro uomo che sembrava colto anche lui da un’estatica ammirazione per la leggiadria di quei corpi.
Era immobile a terra senza cercare neanche di alzarsi, neanche di gridare.
Sock! Il primo ballerino tirò un pugno nello stomaco dell’uomo che cadde a terra come in un elogio dell’afasia
Stud! Un calcio del secondo ballerino lo prese dritto sulla bocca in pieno; mi sembrò di vedere un paio di denti volare lontano da quella che dovrebbe essere la loro più logica ubicazione
Sbram! Il terzo ballerino gli prese la testa per sbatterla contro il muro di fronte; il viso dell’uomo si riempì di sangue a tal punto che i suoi lineamenti diventarono irriconoscibili.
L’uomo rimase in silenzio.
Non urlò, non si lamentò, non chiese aiuto neanche una volta.
Si sentivano solo i canti dei tre danzatori che si incitavano vicendevolmente a non perdere il ritmo della musica.
Tutto ciò mi fece restare attonito. La sigaretta che avevo acceso si era consumata fino ad arrivare a scottarmi le dita e questo mi fece come riprendermi da un’allucinazione.
Ero rimasto totalmente immobile al balcone senza che l’idea di aiutare quell’uomo mi sfiorasse solo per un istante; non per paura o per menefreghismo: ero rimasto sconvolto dall’assoluto silenzio dell’uomo. Era per me qualcosa di inaspettato e incalcolabile che aveva scardinato le mie sicurezze.
Perché non gridare con tutto il fiato, con tutta la forza che ti resta per cercare di liberarsi?
E invece l’uomo non faceva assolutamente niente. Sembrava assente. Il mio sguardo si incentrò per un momento sui suoi occhi mentre gli altri continuavano a danzargli attorno e mi accorsi che stava fissando un punto fermo nel vuoto come se avesse altro a cui pensare; come se ci fosse qualcosa di ben più importante che lo preoccupasse.
Riacquistai lucidità e capì d’un tratto che anche tra le urla che avevo sentito all’inizio quelle della preda non c’erano. Quelle che avevo sentito erano le urla eccitate dell’inseguitore che vede il suo bersaglio braccato, ma invece le urla della preda che cerca ancora una speranza, che non si vuole abbandonare al destino, quelle non le avevo sentite.
Mi venne in mente che la preda voleva abbandonarsi al proprio destino.
Non feci in tempo a capire i pensieri di quell’uomo. Non feci in tempo a comprendere cosa avrei dovuto fare. Prima che in me insorgesse qualsiasi sentimento di solidarietà o anche solo di pietà,
i tre danzatori avevano terminato il loro spettacolo e ormai si allontanavano trionfanti trascinandosi dietro i resti del loro trionfo. Gli vidi entrare in macchina e caricare l’uomo nel posto di dietro e andarsene neanche con troppa fretta.
Io rimasi solo sul balcone inerme e totalmente immobile.
Avevo visto il male di fronte a me ma lo avevo guardato come si fa in un film rimanendone lontano, distaccato, estraneo.
Ci fu solo una domanda stupida e inconsistente: perché non caricarlo nel portabagagli?