15.11.10

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Vidi una luce in fondo a una stanza,
mi fermai.
Ebbi paura di scoprire
cosa c'era al di là
di quello che già conoscevo.

22.4.10

Era una giornata calda, particolarmente afosa.Le persone per strada si inumidivano continuamente il collo e la fronte con dei piccoli fazzoletti bagnati, le signore si riparavano dal sole con ombrellini graziosi sempre intonati ai loro vestiti. Jerome stava seduto fuori dal saloon.Guardava la gente camminare, senza grande interesse in realtà.Si dondolava su una sediolina verde troppo piccola per lui.Ormai la vernice, dopo anni, si stava rovinando e si distinguevano macchie di legno sulle gambe e sullo schienale grandi come una di quelle zolle di terra nella prateria da dove l'erba sparisce e sembra solo che le sia stato tolto il colore.Jerome aveva sempre considerato quelle sediolina come la sua.Si ricordava ancora di quando gli era stato permesso di verniciarla del suo colore preferito. Si ricordava di come stare seduto lì da bambino, lo facesse sentire stranamente protagonista, al centro dell'attenzione di tutti. Ogni passante, ogni cliente del saloon prima di entrare, aveva una parola per quel bambino e per la sua sediolina verde. Stava seduto sempre lì, all'ingresso, e si continuava a dondolare come se quel movimento lo avesse ipnotizzato.Ora Jerome era cresciuto e non riusciva più a dondolarsi come una volta.La vernice stava sparendo e con questa i ricordi del bambino.Non sapeva più passare le giornate accontentandosi di un movimento costante e ripetitivo.Ora passava le giornate fermo su quella stessa sediolina, costantemente scomodo e infastidito dell'evoluzione. Avrebbe preferito che il suo corpo fosse rimasto minuto, che i suoi piedi continuassero a sfiorare il pavimento senza raggiungerlo mai, avrebbe preferito poter continuare a guardare le persone senza chiedersi se erano felici.Ora Jerome non sapeva far altro che restare immobile, senza pensare, senza cercare di capire. Non aveva più voglia di domandare, di insistere. Non ne vedeva il bisogno.Preferiva rimanere fermo con la testa vuota. Aveva passato tutta la vita a osservare le persone, come camminavano, come gesticolavano, come si muovevano..sapeva con certezza che il Sig. Kevlar usava asciugarsi il sudore dal collo dandosi dei piccoli colpetti insistenti e decisi con il suo fazzoletto bluastro; era sicuro che la vecchia Sig.ra Elfest usava iniziare a frugare dentro la sua borsetta senza cercare niente ogni volta che il nipotino Walt la faceva arrabbiare con le sue piccole ma sicuramente straordinarie invenzioni, fonte però delle macchie sul suo vestito; e avrebbe potuto scommettere che la bellissima Lea avrebbe sfoggiato anche oggi un nuovo nastrino con cui reggersi i capelli e anche oggi avrebbe provato a concquistare quell'idiota di Dylan Parton che era considerato da tutti uno dei ragazzi più brutti e scontrosi della città, e infatti nessuno si spiegava come quello splendore avesse potuto perdere la testa per un tipo come quello, ma soprattutto tutti erano allibiti dal fatto che quel tipo continuasse con una fermezza inaspettata e sicuramente sconsiderata a rifiutarla.Jerome continuava a stare fermo sulla sua sediolina e guardava e guardava e guardava senza sapere più dove direzionare lo sguardo.Vedeva una folla davanti a sè, mille persone camminare muoversi parlare e nessuna di queste lo incuriosiva.Vedeva le persone pensare a sè stesse, sbattersi con le spalle con qualcun altro e non accorgersene.Vedeva le persone che man a mano si disinteressavano dell'altro.Mano a mano la voglia,la convinzione,la curiosità morivano.Jerome si ricordava di quel bambino per cui tutti si fermavano un istante, per cui tutti avevano una parola dolce,un sorriso.Ora nessuno salutava Jerome. Non si sentiva solo, anzi non voleva la compagnia di nessuno.Tutti quegli anni passati a osservarli, a imparare a far sua ogni loro intimità, a impadronirsi di ogni loro segreto, gli erano serviti a capire le profonde diversità che c'erano fra lui e tutti quegli altri corpi ciondolanti.Profondità insanabili, che nessuno aveva desiderio di colmare.Jerome sapeva bene che non sarebbe cambiato mai nulla.L'unica cosa che sarebbe successa è che il suo corpo sarebbe continuato a crescere e allora non ci sarebbe entrato più veramente su quelle sediolina.Aveva già deciso cosa fare, come muoversi.Conosceva i movimenti di ognuno di loro, la velocità dei loro passi, la scaltrezza dei loro occhi.Non c'era niente che lo avrebbe ostacolato.Finalmente la bellissima Lea stava svoltando l'angolo.Finalmente stava arrivando al saloon come ogni venerdì, per pagare le commisioni della settimana.Come ogni venerdì lei gli avrebbe rivolto solo un gesto della testa, senza un sorriso, senza una parola, senza un impercettibile movimento della mano; ma questa volta la situazione che la bella Lea conosceva tanto bene era diversa; questo venerdì i proprietari del saloon, quelli che tanti anni prima avevano adottato il piccolo Jerome,erano fuori città ed era il non più piccolo a doversi occupare di tutto.Lea lo superò come al solito ed entrà nel locale e già dal suo primo passo si colse lo stupore; Jerome si alzò e la seguì senza dire niente, senza darle il tempo.Lea non fece in tempo neanche a girarsi che si sentì prendere da dietro, dalla nuca, e venir spinta dentro con forza; Jerome la buttò per terra e le diede un calcio in bocca per farla strillare di più, per fare accorrere qualche salvatore.Lea piangeva e urlava , impaurita dal fucile che le era puntato contro, che le accarezzava le guance; Jerome attese che il pubblico fosse folto e impaziente, poi caricò il fucile e sparò in testa a quello splendore. I volti degli uomini che stavano accorrendo si contrassero; qualcuno urlò dalla disperazione, qualcun'altro scoppiò a piangere.Tutti un secondo dopo si stavano gettando all'impazzata dentro il saloon pronti per linciare l'assassino.Jerome si voltò entusiasta della riuscita del suo piano, fiero di conoscere così bene le abitudini dei suoi vicini.Sparò qualche altro colpo,uccidendo a caso, tanto per far confluire veramente il maggior numero di persone e per dare veramente inizio allo spettacolo.Finalmente lo accerchiarono ma ancora terrorizzati non riuscirono ad aver la meglio.Jerome non fece alto che togliersi la maglietta e mostrare quello che aveva in serbo per loro.Le urla questa volta furono più lancinati delle prime perchè ora tutti avevano paura di morire.I più svelti inziarono a scappare,e forse qualcuno si salvò, ma la maggior parte non fece in tempo.Jerome non fece altro che accendere le micce dei candelotti legati al suo petto e attendere un istante.Era abituato ad aspettare ,lo aveva fatto per tutta la vita, e un istante in più non faceva molta differenza ormai.Ma riuscì comunque a trovare il tempo per farsi un'ultima risata.

3.3.10

Correvo.
A perdifiato.
Senza sapere dove andavo, io correvo.
Senza sapere dove nascondermi, dove rintanarmi, scappavo senza voltarmi più indietro.
Sapevo che continuava a inseguirmi.
Era sempre stato più veloce di me : fin da bambini le nostre gare finivano sempre nello stesso identico modo, lui al traguardo e io in crisi asmatica a metà percorso.
E questa volta ero io il suo traguardo.
Sentivo i muscoli cedere; le gambe non facevano più forza sulla terra, sprofondavano a ogni passo sempre di più nel fango che mi aveva totalmente ricoperto le scarpe; sentivo le spalle incrinarsi a ogni respiro, una colata gelida mi ghiacciava i polmoni.
Sapevo che fra pochi passi l’asma avrebbe avuto la meglio. Come sempre.
Non avevo bisogno di voltarmi per sapere che c’era ancora.
Sentivo i suoi passi, infinitamente più rapidi dei miei, infinitamente meno goffi.
Sentivo i ramoscelli spezzarsi contro il suo corpo, le foglie schiacciate frantumarsi sotto il suo peso.
Mi sentii stranamente simile a un animale.
Eravamo due bestie che si rincorrevano: quella affamata che cacciava e quella impaurita che scappava. Comunque entrambe correvano per la vita.
Io ero la sua preda.
Non si sarebbe fermato fin quando non sarei stato nelle sue mani.
Non potevo biasimarlo. Chiunque si sarebbe comportato nello stesso modo.
Non avrebbe mai potuto reagire in un modo diverso. Anch’io avrei fatto lo stesso.
Io lo sapevo dall’inizio. Dal primo passo, dal primo tocco, dal primo odore; io ero certo che la conseguenza sarebbe stata questa. Le altre volte che avevo capito, o solamente intuito, quale sarebbe stato il risultato delle mie azioni era sempre stato in momenti futili, passeggeri; questa era la prima volta che mi rendevo conto del male che stavo provocando in tutta la sua chiarezza e concretezza: l’immagine era perfettamente nitida per me. Più che una foto la mia fantasia rappresentava questa scena come se fosse un ricordo, come qualcosa che io stesso avevo già vissuto in prima persona.
Avevo sentito il suo corpo piegarsi per il dolore, il respiro farsi affannato, il suo cuore diventare incerto.
Sentivo le sue mani che stringevano il ferro delle inferiate alle finestre, le sentivo piegarsi, cedere a una morsa irresistibile.
Capivo il suo spirito umiliato, imprigionato ormai per colpa mia, in una diffidenza ossessiva.
E ora correvo.
Correvo come non avevo mai fatto prima.
Eppure sapevo che mi sarei dovuto fermare. Avrei dovuto voltarmi e aspettare l’ira della bestia.
Avrei dovuto offrirgli il mio corpo perche si sfogasse, perche martoriandolo potesse placarsi.
Sarebbe stata l’unica cosa da fare; l’unica scelta realmente giusta.
E invece continuai a correre.
Cercai di accelerare il passo, di non inciampare, di impegnare tutte le mie ultime energie.
Avevo troppo paura: ci sarebbe stato un attimo, prima di massacrarmi, in cui avremmo dovuto guardarci negli occhi e lui avrebbe capito che io non ero più in grado di sostenere il suo sguardo.
Sentì i suoi passi rallentare, farsi improvvisamente distanti.
Pensai per un momento di avercela fatta, di avere sconfitto il leone.
D’un tratto un sasso mi colpì la nuca; prima di toccare terra ero già morto.

11.2.10

Non riuscivo a dormire.
Mi ero stufato di girarmi nel letto e decisi di uscire a fumare sul balcone.
La notte era fredda e per strada sembrava non esserci nessuno.
Sentì un rumore come di un qualcosa lanciato contro il muro che si frantuma.
Sentì delle urla. Vidi un uomo correre a perdifiato inseguito da altri 3.
Non era abbastanza veloce. Lo presero pochi passi dopo che aveva superato il mio balcone.
L’uomo era a terra; i tre lo picchiavano ininterrottamente; uno alla volta davano sfoggio delle proprie capacità. La ferrea e democratica alternanza li fece assomigliare ai miei occhi a tre danzatori che , consci dell’importanza di rispettare ogni passo con religiosa precisione, intersecavano con impareggiabile maestria i loro movimenti e così ogni giravolta dell’uno era seguita da uno splendido balzo di un altro per poi lasciare spazio a una presa del terzo.
I tre danzatori giravano, volteggiavano, piroettavano intorno all’altro uomo che sembrava colto anche lui da un’estatica ammirazione per la leggiadria di quei corpi.
Era immobile a terra senza cercare neanche di alzarsi, neanche di gridare.
Sock! Il primo ballerino tirò un pugno nello stomaco dell’uomo che cadde a terra come in un elogio dell’afasia
Stud! Un calcio del secondo ballerino lo prese dritto sulla bocca in pieno; mi sembrò di vedere un paio di denti volare lontano da quella che dovrebbe essere la loro più logica ubicazione
Sbram! Il terzo ballerino gli prese la testa per sbatterla contro il muro di fronte; il viso dell’uomo si riempì di sangue a tal punto che i suoi lineamenti diventarono irriconoscibili.
L’uomo rimase in silenzio.
Non urlò, non si lamentò, non chiese aiuto neanche una volta.
Si sentivano solo i canti dei tre danzatori che si incitavano vicendevolmente a non perdere il ritmo della musica.
Tutto ciò mi fece restare attonito. La sigaretta che avevo acceso si era consumata fino ad arrivare a scottarmi le dita e questo mi fece come riprendermi da un’allucinazione.
Ero rimasto totalmente immobile al balcone senza che l’idea di aiutare quell’uomo mi sfiorasse solo per un istante; non per paura o per menefreghismo: ero rimasto sconvolto dall’assoluto silenzio dell’uomo. Era per me qualcosa di inaspettato e incalcolabile che aveva scardinato le mie sicurezze.
Perché non gridare con tutto il fiato, con tutta la forza che ti resta per cercare di liberarsi?
E invece l’uomo non faceva assolutamente niente. Sembrava assente. Il mio sguardo si incentrò per un momento sui suoi occhi mentre gli altri continuavano a danzargli attorno e mi accorsi che stava fissando un punto fermo nel vuoto come se avesse altro a cui pensare; come se ci fosse qualcosa di ben più importante che lo preoccupasse.
Riacquistai lucidità e capì d’un tratto che anche tra le urla che avevo sentito all’inizio quelle della preda non c’erano. Quelle che avevo sentito erano le urla eccitate dell’inseguitore che vede il suo bersaglio braccato, ma invece le urla della preda che cerca ancora una speranza, che non si vuole abbandonare al destino, quelle non le avevo sentite.
Mi venne in mente che la preda voleva abbandonarsi al proprio destino.
Non feci in tempo a capire i pensieri di quell’uomo. Non feci in tempo a comprendere cosa avrei dovuto fare. Prima che in me insorgesse qualsiasi sentimento di solidarietà o anche solo di pietà,
i tre danzatori avevano terminato il loro spettacolo e ormai si allontanavano trionfanti trascinandosi dietro i resti del loro trionfo. Gli vidi entrare in macchina e caricare l’uomo nel posto di dietro e andarsene neanche con troppa fretta.
Io rimasi solo sul balcone inerme e totalmente immobile.
Avevo visto il male di fronte a me ma lo avevo guardato come si fa in un film rimanendone lontano, distaccato, estraneo.
Ci fu solo una domanda stupida e inconsistente: perché non caricarlo nel portabagagli?