3.3.10

Correvo.
A perdifiato.
Senza sapere dove andavo, io correvo.
Senza sapere dove nascondermi, dove rintanarmi, scappavo senza voltarmi più indietro.
Sapevo che continuava a inseguirmi.
Era sempre stato più veloce di me : fin da bambini le nostre gare finivano sempre nello stesso identico modo, lui al traguardo e io in crisi asmatica a metà percorso.
E questa volta ero io il suo traguardo.
Sentivo i muscoli cedere; le gambe non facevano più forza sulla terra, sprofondavano a ogni passo sempre di più nel fango che mi aveva totalmente ricoperto le scarpe; sentivo le spalle incrinarsi a ogni respiro, una colata gelida mi ghiacciava i polmoni.
Sapevo che fra pochi passi l’asma avrebbe avuto la meglio. Come sempre.
Non avevo bisogno di voltarmi per sapere che c’era ancora.
Sentivo i suoi passi, infinitamente più rapidi dei miei, infinitamente meno goffi.
Sentivo i ramoscelli spezzarsi contro il suo corpo, le foglie schiacciate frantumarsi sotto il suo peso.
Mi sentii stranamente simile a un animale.
Eravamo due bestie che si rincorrevano: quella affamata che cacciava e quella impaurita che scappava. Comunque entrambe correvano per la vita.
Io ero la sua preda.
Non si sarebbe fermato fin quando non sarei stato nelle sue mani.
Non potevo biasimarlo. Chiunque si sarebbe comportato nello stesso modo.
Non avrebbe mai potuto reagire in un modo diverso. Anch’io avrei fatto lo stesso.
Io lo sapevo dall’inizio. Dal primo passo, dal primo tocco, dal primo odore; io ero certo che la conseguenza sarebbe stata questa. Le altre volte che avevo capito, o solamente intuito, quale sarebbe stato il risultato delle mie azioni era sempre stato in momenti futili, passeggeri; questa era la prima volta che mi rendevo conto del male che stavo provocando in tutta la sua chiarezza e concretezza: l’immagine era perfettamente nitida per me. Più che una foto la mia fantasia rappresentava questa scena come se fosse un ricordo, come qualcosa che io stesso avevo già vissuto in prima persona.
Avevo sentito il suo corpo piegarsi per il dolore, il respiro farsi affannato, il suo cuore diventare incerto.
Sentivo le sue mani che stringevano il ferro delle inferiate alle finestre, le sentivo piegarsi, cedere a una morsa irresistibile.
Capivo il suo spirito umiliato, imprigionato ormai per colpa mia, in una diffidenza ossessiva.
E ora correvo.
Correvo come non avevo mai fatto prima.
Eppure sapevo che mi sarei dovuto fermare. Avrei dovuto voltarmi e aspettare l’ira della bestia.
Avrei dovuto offrirgli il mio corpo perche si sfogasse, perche martoriandolo potesse placarsi.
Sarebbe stata l’unica cosa da fare; l’unica scelta realmente giusta.
E invece continuai a correre.
Cercai di accelerare il passo, di non inciampare, di impegnare tutte le mie ultime energie.
Avevo troppo paura: ci sarebbe stato un attimo, prima di massacrarmi, in cui avremmo dovuto guardarci negli occhi e lui avrebbe capito che io non ero più in grado di sostenere il suo sguardo.
Sentì i suoi passi rallentare, farsi improvvisamente distanti.
Pensai per un momento di avercela fatta, di avere sconfitto il leone.
D’un tratto un sasso mi colpì la nuca; prima di toccare terra ero già morto.